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Riccardo ha fatto diversi viaggi da solo sulla sua moto; una di quelle avventure che tutti sogniamo di fare almeno una volta nella vita ma che raramente riusciamo a realizzare.
Da questa sua incredibile esperienza ne è nato un libro dal titolo evocativo; “Una vita in Viaggio” la vita che Riccardo Prati ci racconta in questa intervista, dove ho cercato di portare nel blog il suo spirito di avventura e la sua coinvolgente positività. Prima di andare aventi e viaggiare insieme a Riccardo, sappiate che il ricavato della vendita del libro sarà devoluto alla Caritas di Makeni in Sierra Leone.
Riccardo è un personaggio incredibile, di immensa umanità e umiltà, un viaggiatore come pochi.

Prima che iniziate a chiedervi come possa permettersi una vita in viaggio leggetevi questa breve introduzione e cercate di comprendere perché abbia deciso di dedicare la sua vita all’avventura in giro per il mondo e cercate di capirne le profonde motivazioni che lo hanno portato a fare una vita “fuori dal normale”.

Chi è Riccardo

Quando era un bambino aveva un mappamondo a fianco del letto e prima di addormentarsi lo faceva ruotare. Poi lo fermava con un dito, scopriva su quale lembo di terra si fosse fermato e fantasticava su quelle mete esotiche.
La Patagonia, l’Africa australe, le Indie, il deserto del Sahara, le terre del sol levante, gli antipodi, le isole del Pacifico.
Ora Riccardo è un uomo e i suoi sogni sono divenuti realtà. Quelle terre misteriose le ha visitate davvero, una dopo l’altra ha attraversato le strade di oltre 120 paesi.
Le ha attraversate cavalcando una delle sue tre moto, a piedi, in barca, con i mezzi locali. Ha viaggiato da solo, con la fidanzata del momento, con gli amici, come coordinatore di tour avventurosi.

Per poter viaggiare così tanto ha scelto le strade meno battute, ha fatto molte rinunce, ha pagato tutti i prezzi che c’erano da pagare.
Scelte che ora lo portano a definirsi un minimalista e un disadattato di lusso. Scelte che però lo hanno reso libero e felice.

Un racconto di viaggio attraverso sè stesso o il raccontare sè stesso con la scusa del viaggio?
Forse la seconda opzione.
Come lo dimostra la critica al Cammino di Santiago, il lungo pellegrinaggio che ha dedicato all’amore della sua vita, la mamma o l’angosciante volo di ritorno da Cuba per tornare al capezzale del papà.
E i racconti degli overland motociclistiti nei cinque continenti, il trekking al campo base Everest, le tre malarie che l’hanno colpito, il suo amore per l’India, lo Yemen e la Sierra Leone, gli incontri con le prostitute africane, gli anedotti pazzeschi dei viaggi di gruppo come quello dell’attraversare mezza Africa con un piccolo frigorifero portatile.
Per non parlare delle esperienze come operatore umanitario o come artista di strada.
Il viaggio dunque come minimo comune denominatore, un caleidoscopio di emozioni, riflessioni e risate in 31 accattivanti episodi.
Ho scritto questo libro anche per questo, per leggerlo nei miei momenti di malinconia, per ricordarmi di aver vissuto una vita meravigliosa”.

Le mie curiosità sulle sue avventure

  1. Da cosa nasce la tua passione per i viaggi, quelli veri come ami fare tu; in sella alla moto con soltanto la libertà a farti compagnia?
    Sin da piccolo sapevo che avrei viaggiato per tutto il mondo ma non immaginavo che l’avrei fatto in motocicletta. Perchè  credevo che fosse una cosa troppo difficile per me. Perchè provengo da una famiglia piuttosto rigida e per avere il CIAO a quattordici anni ho dovuto sudare sette camice. E dopo un incidente in VESPA a fine adolescenza abbandonai ogni velleità motociclistica. Poi, tanti anni dopo, e dopo tanti viaggi con mezzi tradizionali, un mio caro amico mi dice: “Dai, andiamo in India, compriamo due Enfield Bullet 350 e torniamo a casa via terra!!!”. Dopo lo stupore, la paura e milioni di dubbi, decisi di accettare. Fu un’esperienza incredibile, illuminante. Mai mi ero sentito così libero e appagato. Mi resi conto che era più facile di quello che sembrava. Si, anche io ce la potevo fare. Mi si è aperto così un nuovo mondo, un mondo di viaggi in moto.
  2. Da motociclista conosco benissimo le sensazioni uniche e impossibili da descrivere per chi non è mai salito in sella a una moto percorrendo centinaia di chilometri senza fermarsi. So che hai fatto svariati viaggi in moto, hai percorso anche parte o tutta la Route 66?
    Puoi parlarcene?
    Volentieri, ho percorso parte della Route 66 in occasione del “mio viaggio della vita”: in solitaria da New York a Buenos Aires passando per il Labrador e la Terra del fuoco, lungo un percorso di 33.000 km, 15 paesi attraversati in 8 mesi di viaggio, pernottando presso le famiglie locali con il “couchsurfing”.
    Il couchsurfing è un servizio gratuito di scambio di ospitalità, un modo nuovo di viaggiare che offre, oltre ad un alloggio gratuito, anche l’opportunità di conoscere nuove persone e fare nuove esperienze. Come scoprirò ben presto il valore aggiunto non è il risparmio economico ma la possibilità di entrare nella vita della gente, conoscerne usi e costumi, trasformarsi da turista in viaggiatore. Con al seguito un pacco di spaghetti e “millantando” di far conoscere la cucina italiana riuscirò ad aprire tanti cuori e a strappare tanti sorrisi.La protagonista principale di questa avventura e’ la mia Bmw 1.100 Gs, 25 anni e non li dimostra, da 21 anni mia fedele compagna, uno dei rapporti affettivi più lunghi che abbia mai avuto. A dire il vero l’ho spesso trascurata dimenticando di cambiare l’olio e saltando i classici tagliandi e non ho idea di come funzioni un ingranaggio né come cambiare un filo della frizione. Decido quindi di partire senza alcun pezzo di ricambio né alcun attrezzo, che tanto non saprei usare. Confido molto sul basso tasso tecnologico della moto, sul viaggiare senza fretta e sulla fortuna.
    Dopo aver lasciato New York attraverso tutto il New England, entro in Canada, poi l’Isola di Terranova e il Labrador fino al punto più a nord della costa atlantica, Cartwright. Da ora in poi si inizia a scendere, tutto il continente da attraversare, una grande sfida!!!La Trans-Labrador highway attraversa un’immensa landa selvaggia, antica e poco popolata. Pochi si avventurano da queste parti, incontro qualche motociclista canadese nei piccoli villaggi di Happy-Goose Bay, Churchill Falls e Labrador City. Sono giorni molto impegnativi che mettono a dura prova sia le mie condizioni fisiche che quelle della moto ed è un piacere varcare il confine del Quebec. Costeggio l’immensa foce del San Lorenzo, visito Quebec City, Montreal, Ottawa e arrivo a Chicago. La città del vento sul lago Michigan mi emoziona molto, la ritengo una tappa fondamentale del viaggio, rappresenta la fine della prima parte, da domani si volta pagina e la prossima inizia con un mito, il mito della Route 66. Inizia ufficialmente nel centro di Chicago, in Adams street ed è la leggendaria highway aperta nel 1926 che collega Chicago a Los Angeles attraverso gli stati Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona e California su una distanza complessiva di circa 2.300 miglia. Soprannominata The Mother Road (la strada Madre) da John Steinbeck in Furore è un simbolo, un’istituzione inscindibile della cultura americana, la cultura dei motel, delle stazioni di servizio, delle tavole calde per camionisti (diner) e delle vistose insegne al neon.La prima tappa è Wilmington; di fronte al Gemini Giant incontro Franco e Roberto, fotografi italiani amanti della Route, l’hanno già percorsa varie volte, decisi a non perdersi nemmeno un metro di questa incredibile strada. Mi svelano alcuni segreti e le attrazioni da non perdere per nessun motivo.
    Oggi è giorno di Red Carpet, una famosa rievocazione storica e le strette strade sono intasate di Cadillac anni 50 mentre i fast food old style sono presi d’assalto da turisti e locali.
    Atlanta Illinois è un piccolo paesino storico con pompe di benzina di metà novecento, musei e segnaletica vintage. È un ritorno nel passato, un tuffo nel sogno americano alla Happy Days di fonzarelliana memoria.A fine giornata saluto gli amici italiani e a tutta velocità raggiungo St.Louis dove incontro una nuova amica di couchsurfing, Mariana.
    Sono ospite in una bella villa stile vittoriano dove mi viene offerta una cena luculliana. Sono sempre più sorpreso dall’ospitalità che mi riservano, cerco di sdebitarmi con qualche piccolo regalo portato da casa e con i miei racconti di viaggio. La città è molto affascinante con i suoi musei, i suoi parchi e il quartiere degli artisti. Mi fermo più del previsto e quando riparto non mi perdo le località di Cuba, Miami, Galena e Riverton.
    Poi entro in Oklahoma e con difficoltà trovo la casa di Jess e compagno, nell’estrema periferia di Tulsa. Lui ha la faccia da pazzo scatenato e l’ingresso in casa non è molto confortante: buio pesto, odore acre, cani, gatti, serpenti ed iguane. Temo di essere capitato a casa dell’Hannibal Lecter di turno ma ormai ho scaricato le borse e non me la sento di tornare indietro. In realtà sarà un falso allarme, Jess è una veterinaria ed è molto simpatica. Come da copione preparo i miei spaghetti aglio olio e peperoncino e trascorriamo una bella serata.
    In un famoso Rock Caffè sulla Route incontro Dustin, ex poliziotto che ha venduto tutto e possiede solo la sua Harley e qualche bagaglio con il vestiario. È in viaggio da due anni, senza una meta precisa, senza un futuro da condividere, solo lui e la sua moto. Davvero una vita On the road !!!Dustin è una preziosa fonte di informazioni e tra le tante mi avvisa dell’imminente arrivo della stagione degli uragani. E così sarà, nei successivi giorni sarò bloccato in un lurido motel e viaggerò con il costante controllo della situazione meteo onde evitare le zone più a rischio. Il sole torna solo in Texas e più precisamente ad Amarillo dove mi godo il famoso Cadillac Ranch, la scultura monumentale rappresentata da dieci Cadillac che sembrano piantate nel terreno. Il Mid Point della Route attesta che sono a metà strada tra Chicago e Los Angeles e decido che è ora di cambiare aria, lasciare la Mother Route e puntare a nord, direzione Colorado. Mi fermo nella colorata Santa Fè dove un meccanico tedesco mi cambia la gomma posteriore che da qualche giorno continuava lentamente ma inesorabilmente a sgonfiarsi. Proseguo poi per Taos dove c’è un raduno dei figli dei fiori e percorro a folle velocita la statale 64, strada di montagna con curve molto ampie e residui di neve sul ciglio della strada. I paesaggi sono molto variegati, il traffico inesistente, mi sento libero e felice come un bambino.Poi eccomi nella Monument Valley, i suoi monoliti di sabbia rossa che si stagliano sull’orizzonte sono l’immaginario tipico del Far West americano. Arrivare con la propria moto è un’emozione incredibile, uno dei must del viaggio, un momento indimenticabile. Nel Tribal Park non è ammesso l’accesso alle moto ma poco importa, ci sono tanti percorsi alternativi e sterrati da esplorare. Percorro tutti i lati della valle e il giorno seguente transito per Kayenta alla volta del Grand Canyon. Ancora strade infinite e panorami mozzafiato. Tira un forte vento e sono molto stanco ma quando varco l’ingresso del parco mi dimentico di tutto. Lo scenario è pazzesco, indescrivibile, difficile da immortalare con il mio economico cellulare.

    Il Grand Canyon merita sicuramente qualche giornata di sosta così come Sedona dove mi fermo per un paio di rilassanti trekking.
    Bello riposato riparto e a Kingman Arizona cerco la deviazione per la rinomata Oatman, attraversando il soffocante deserto del Mojave. Dopo una solitaria corsa in mezzo al nulla una lunga discesa mi catapulta ad Oatman, segreta e minuscola cittadina, una ghost town con vecchi negozi dalle insegne cadenti, qualche saloon e tanti piccoli asinelli in attesa di essere fotografati.

    Nella medesima giornata passo dal sacro al profano, dal passato al futuro, dal silenzio al delirio, ossia da Oatman a Las Vegas. Sono 200 chilometri di deserto ma le luci della città si vedono già a decine di chilometri di lontananza. È valsa la pena questa deviazione? Assolutamente si, attraversare lo Strip di notte, con la moto infangata e lo sguardo curioso dei turisti è davvero eccitante!
    Resisto alla tentazione di giocarmi tutti i risparmi e riparto per Barstow dove dormo in uno dei motel più famosi della Route, il Motel 66. Pessima scelta, la mattina mi sveglio ricoperto di punture di pulci o di qualche strano parassita.
    Amareggiato, percorro gli ultimi chilometri della 66, una veloce sosta a San Bernardino dove si trova il locale che ha dato il via alla saga di McDonald’s. Vorrei prendermi un hamburger vegetariano ma scopro che è un museo, e tra l’altro piuttosto kitsch.
    A una cinquantina di chilometri da Los Angeles il traffico diventa preoccupante, svincoli parabolici e lunghe code sotto un sole cocente. Finalmente vedo l’oceano e l’affollatissima spiaggia di Santa Monica. La Route 66 is over, il coast to coast statunitense è terminato.
    Ma siamo solo all’inizio di questo fantastico overland.

  3. Direi un’avventura fantastica che unisce spirito di avventura, coraggio e un pizzico di follia che in questo tipo di viaggio non guasta mai.
    Pensando a tutte le avventure che hai vissuto in questi anni di viaggi, puoi raccontarci un aneddoto curioso che ti è rimasto in mente?
    Un momento di difficoltà, di soddisfazione, di malinconia o di eccitazione per quanto stavi vivendo.
    Ti racconto questo aneddoto che mi ha colpito molto.
    “Dai andiamo in India, noleggiamo una Enfield Bullet dal mio amico Lali Singh e scorrazziamo su due ruote per tutto il Rajastan!”.Ho conosciuto Patrizia solo da poche settimane, ma è stato subito chiaro che potevamo condividere delle esperienze fuori dal comune. Lei mi dice di si, e dopo qualche settimana partiamo.Siamo in pieno inverno e il parco moto da poter noleggiare è alquanto esiguo. Alla fine opto per una vecchia Bullet 500, grigia come la nebbia che avvolge Nuova Delhi in questo periodo dell’anno. Oltre alla nebbia fa anche molto freddo, soprattutto nelle prime ore del mattino. Siamo però ben organizzati, non necessariamente con abbigliamento tecnico ma con la consueta tecnica del vestiario a “cipolla”. Patrizia è magrolina, si accartoccia attorno a me dal sellino posteriore e siamo pronti per solcare le difficili strade indiane. Una delle prime tappe è Vrindavan, la città sacra della setta degli Hare Krishna, con centinaia di templi e decine di ashram che accolgono sadhu, yogi, spiritualisti e devoti, tra cui molti occidentali che hanno cambiato vita.I templi di Radha Raman e Sri Radha Govinda sono presi d’assalto da giovani europei e americani con le teste rasate e le tuniche arancioni. I loro occhi sono spiritati mentre recitano il loro più famoso mantra. Parliamo con alcuni di loro ma ben presto colgo diffidenza e astio per noi che non apparteniamo al loro gruppo. Mi sembrano invasati, estremisti della loro causa e riescono a mettermi in forte disagio.
    Molto più rilassante e da un certo punto di vista romantica è la visita al Taj Mahal di Agra, il mausoleo in marmo bianco dedicato alla moglie dall’imperatore Shah Jahan, considerato una delle sette meraviglie del mondo moderno.
    Lasciamo poi l’Uttar Pradesh ed entriamo in Rajastan; visitiamo Jaipur, la stupenda città rosa e poi Jodhpur, la città blu.
    La moto risponde molto bene a tutte le sollecitazioni ed essendo in compagnia di una “donzella” ho anche alzato lo standard medio delle sistemazioni alberghiere, non più le solite maleodoranti bettole ma anche qualche albergo con accenni di comfort. La polvere aumenta in maniera esponenziale quando attraversiamo il deserto del Thar, il Grande Deserto Indiano che si estende anche nel confinante Pakistan. Ci fermiamo per una sosta e quella che dapprima sembrerebbe il miraggio di una nave gigantesca intrappolata dal deserto è invece la città magica, uno degli scopi principali del nostro viaggio, Jaisalmer. Jaisalmer è la città fortificata, le sue 99 torri a proteggerla, i vicoli presidiati da decine di mucche sacre, i bambini urlanti al nostro passaggio, le donne che lavano i panni davanti alle case.Sembra che il tempo si sia fermato da questi parti. Anche io mi fermerei più a lungo ma Patrizia ha il vizio di lavorare e dobbiamo rientrare.
    Irrinunciabile la sosta a Deshnok dove al tempio di Karni Mata è d’abitudine venerare i topi. Topi? Sì, i topi. Topi che corrono sul pavimento di marmo, topi che si arrampicano ovunque, topi che ti sfrecciano in mezzo alle gambe e sui piedi, topi che bevono latte da grosse ciotole in metallo. Centinaia, migliaia di topi di varie dimensioni che scorrazzano indisturbati, non solo non temuti ma addirittura adorati.Il nostro raid motociclistico ad anello è quasi giunto al termine e tutti contenti torniamo a Jaipur. Solo 260 chilometri ci separano da Delhi, un gioco da ragazzi ormai. Di buon mattino visitiamo la fortezza di Amber e proseguiamo in direzione nord, senza una meta finale definita. L’importante è restituire la moto entro l’indomani e non perdere il volo di ritorno. La giornata è calda e ce la prendiamo con calma. Tante sono le fermate, il rifornimento di benzina, uno spuntino, gli ultimi scatti fotografici.
    E non riesco a macinare i chilometri che avrei voluto. Il sole è sempre più basso all’orizzonte e ben presto cala la notte.
    Una sosta per una frugale cena con l’intento di fermarci al primo albergo utile.
    Viaggiare di notte in India è un’ardua impresa. Ti attraversa di tutto: mucche, carretti, biciclette, cani, motorini. Non esistono regole di precedenza, non esiste illuminazione pubblica. L’Enfield non è certo famosa per la potenza del suo impianto luci ma ho esperienza, vado piano e sono tranquillo. Tranquillo fino a quando il motore incomincia a perdere colpi e improvvisamente saltano gli abbaglianti. Tutto gestibile, ho ancora gli anabbaglianti e le luci di posizione su cui contare.Siamo in piena campagna, poche abitazioni, pochi segni di vita a parte grossi camion che sfrecciano veloci. Proseguo concentrato. Saltano anche gli anabbaglianti. E qui la situazione si complica. E di molto. È buio pesto e con le soli luci di posizione è davvero difficile tenere la carreggiata. Potrei fermarmi? Sì, ma dove e a che fare?

    Provo ad accodarmi alle poche auto e ai camion che mi sorpassano. Ma loro corrono a forte velocità nelle tenebre e io non riesco a tenere il passo, li vedo allontanarsi irrimediabilmente. E torniamo nella nostra condizione di buio. Patrizia non fiata, forse è davvero brava, forse è terrorizzata.
    All’improvviso intravedo un copertone al centro della carreggiata. Riesco miracolosamente a schivarlo ma finisco in mezzo ad un campo, fortunatamente senza cadere. Dal nulla si materializza un contadino che incomincia a inveire e a toccare Patrizia. Lo allontano in malo modo e provo a ripartire. Ora sono davvero preoccupato. Non posso fermarmi qui ma proseguire è pericolosissimo. Procedo a passo d’uomo, concentratissimo. Saltano anche le luci di posizione. Ora non vedo assolutamente nulla e nessuno vede noi, neanche chi ci sorpassa. Panico? No, ma sono davvero preoccupato. Proseguo a tentoni ma poco dopo la moto si spegne definitivamente. The game is over.

    Patrizia scende dalla moto e si mette in sicurezza. Io rimango per un attimo sul ciglio della strada in preda a mille pensieri, elaborando dati per cercare una soluzione.
    Poi sento come una spinta. Una spinta vellutata che mi allontana dal bordo della strada e mi precipita nel fosso vicino a Patrizia. In quello stesso istante un enorme camion a folle velocità sfiora me e la mia Enfield. Senza quella piccola spinta il camion mi avrebbe disintegrato. Quella spinta non è partita da me.
    Sono super ateo ma credo che qualcuno o qualcosa sia intervenuto in mio soccorso.
    Mi piace chiamarlo angelo custode. Sì, ne sono certo, l’ho proprio sentito, era Lui.

  4. Puoi parlarci del tuo ultimo libro?
    Di come è nata l’idea di realizzarlo e soprattutto descriverci il contenuto per incuriosire i vostri lettori?
    Sono un accanito lettore e ho sempre sognato di entrare in libreria e trovare un libro scritto da me.
    Quando ero un bambino avevo un mappamondo a fianco del letto e prima di addormentarmi lo facevo ruotare. Poi lo fermavo con un dito, scoprivo su quale lembo di terra si fosse fermato e fantasticavo su quelle mete esotiche.La Patagonia, l’Africa australe, le Indie, il deserto del Sahara, le terre del sol levante, gli antipodi, le isole del Pacifico.
    Ora sono cresciuto e i miei sogni sono divenuti realtà. Quelle terre misteriose le ho visitate davvero, uno dopo l’altro ho attraversato le strade di oltre 120 paesi.
    Le ho attraversate cavalcando una delle mie tre moto, a piedi, in barca, con i mezzi locali. Ho viaggiato da solo, con la fidanzata del momento, con gli amici, come coordinatore di tour avventurosi. Per poter viaggiare così tanto ho scelto le strade meno battute, ho fatto molte rinunce, ho pagato tutti prezzi che c’erano da pagare.
    Scelte che ora mi portano a definirmi un minimalista e un disadattato di lusso. Scelte che però mi hanno reso libero e felice.
    Un racconto di viaggio attraverso mè stesso o il raccontare mè stesso con la scusa del viaggio? Forse la seconda opzione.
    Come lo dimostra la critica al Camino di Santiago, il lungo pellegrinaggio che ho dedicato all’amore della mia vita, la mamma o l’angosciante volo di ritorno da Cuba per tornare al capezzale del papà. E i racconti degli overland motociclistiti nei cinque continenti, il trekking al campo base Everest, le tre malarie che mi hanno colpito, il mio amore per l’India, lo Yemen e la Sierra Leone, gli aneddoti pazzeschi dei viaggi di gruppo come quello dell’attraversare mezza Africa con un piccolo frigorifero portatile.
    Per non parlare delle esperienze come operatore umanitario o come artista di strada.
    Il viaggio dunque come minimo comune denominatore, un caleidoscopio di emozioni, riflessioni e risate in 31 accattivanti episodi.
    “Ho scritto questo libro anche per questo, per leggerlo nei miei momenti di malinconia, per ricordarmi di aver vissuto una vita meravigliosa”.

Dal Labrador alla Terra del fuoco

Arrivo a New York in una calda notte di luglio, bivacco in aeroporto e di buon mattino raggiungo il quartiere di Yonkers dove la mia BMW è in attesa di essere cavalcata, parcheggiata in un garage a 5 stelle in compagnia di Cadillac, Chevrolet e Corvette. Ho lasciato la moto nella Grande Mela in primavera, alla fine della missione di Motoforpeace, la Onlus romana con la quale, partendo da Panama, ho attraversato tutta l’america centrale, il Messico, gli Stati uniti e il Canada visitando e finanziando due progetti umanitari in Honduras e Guatemala. Quando spiego al titolare del garage le mie intenzioni di viaggio mi guarda schifato e mi chiede :”Perchè?”. La mia risposta è lapidaria: “Perchè no?”. Ho già visitato tutti i paesi che attraverserò e quindi eviterò le principali località turistiche, viaggerò per strade secondarie e dormirò a casa delle popolazioni locali. Per fare tutto ciò utilizzerò il couchsurfing (www.couchsurfing.com), un servizio gratuito di scambio di ospitalità. Come scoprirò ben presto il valore aggiunto non è il risparmio economico ma la possibilità di entrare nella vita della gente, conoscerne usi e costumi, trasformarsi da turista in viaggiatore. Ma prima di iniziare vorrei presentare la protagonista principale di questa avventura, la Bmw 1.100 Gs, da 25 anni mia fedele compagna. A dire il vero l’ho spesso trascurata dimenticando di cambiare l’olio e saltando i classici tagliandi e non ho idea di come funzioni un ingranaggio né come cambiare un filo del gas. Decido quindi di partire senza alcun pezzo di ricambio né alcun attrezzo, che tanto non saprei usare. Lascio dunque New York, sono solo, un senso di libertà infinita, così tanta da avere quasi paura. Dopo aver visitato Boston e dintorni dedico qualche settimana al New England, stati famosi per il loro passato coloniale e per le montagne ricche di foreste. Mi rendo subito conto dell’incredibile educazione civica e stradale degli americani ma prima di adattarmi al nuovo regime commetto qualche infrazione e mi capita di essere placcato da una volante.

Un sorriso, l’essere italiano e essere all’inizio di un epico viaggio convince il mascellato poliziotto a chiudere un occhio e ad augurarmi buon proseguimento. Per giorni attraverso la provincia americana, le classiche villette bianche in legno con la bandiera a stelle e striscie che sventola e il padrone di casa alle prese con il trattorino tosaerba. Sembra tutto finto come nel film The Truman Show e invece è la realtà. Così come è realta l’incontro notturno con un orso dal quale ne esco fortunatamente illeso. Dopo giornate bucoliche ed escursioni nei Monti Appalachi torno sul mare, nel Maine e dopo una fredda notte in tenda nell’acadia National Park arrivo alla frontiera con il Canada. L’immensità dei panorami del New Brunswich e della Nuova Scozia toglie quasi il fiato, è una lezione di geografia all’aperto. Le terre emerse stanno finendo e non mi resta che puntare a North Sydney dove mi imbarco per l’isola di Terranova. Il panorama è molto diverso dalla terraferma canadese: pochissimi alberi e la tundra a farla da padrone.

Con difficoltà risolvo il problema della prima foratura e attraverso tutta l’isola fino a St.Barbe dove mi imbarco per tornare in continente, nelle terre estreme e sconosciute del Labrador, The Big Land. Terra ostile che mi accoglie con freddo, nebbia e pioggia; un territorio grande come l’Italia ma abitato da meno di 30.000 persone. Qui inizia un infinito sterrato che mi accompagnerà per molte centinaia di chilometri fino a Cartwright dove tocco il punto più settentrionale del viaggio. Da ora in poi si inizia a scendere, tutto il continente da attraversare, una grande sfida!!! La Trans-Labrador highway attraversa un’immensa landa selvaggia, antica e poco popolata. Pochi si avventurano da queste parti, incontro qualche motociclista canadese nei piccoli villaggi di Happy-Goose Bay, Churchill Falls e Labrador City. Sono giorni molto impegnativi che mettono a dura prova sia le mie condizioni fisiche che quelle della moto ed è un piacere varcare il confine del Quebec e riposarsi a Baie-Comeau. Costeggio l’immensa foce del San Lorenzo, tanto grande da sembrare un mare, poi la natura selvaggia lascia il posto alle grandi città di Quebec City, Montreal e Ottawa. Poi Toronto dove trovo un’officina Bmw e ne approfitto per un bel tagliando. Sotto un diluvio universale raggiungo Chicago, la città del vento sul lago Michigan dove ha inizia la mitica Route 66. E’ la leggendaria highway aperta nel 1926 che collega Chicago a Los Angeles attraverso gli stati Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona e California su una distanza complessiva di circa 2.300 miglia.

Soprannominata The Mother Road (la strada Madre) è un simbolo, un’istituzione inscindibile della cultura americana, la cultura dei motel, delle stazioni di servizio, delle tavole calde per camionisti (diner) e delle vistose insegne al neon. Non mi perdo le località di Cuba, Miami, Galena e Riverton prima dell’imminente arrivo della stagione degli uragani. Per alcuni giorni sarò bloccato in un lurido motel e viaggerò con il costante controllo della situazione meteo. Il sole torna solo in Texas quando decido di puntare a nord e raggiungere la Monument Valley. Arrivare con la propria moto nel Far west è un’emozione incredibile, uno dei must del viaggio. Poi è la volta del Grand Canyon e di Sedona dove mi fermo per un paio di trekking.Una deviazione sullo strip di Las Vegas e infine gli ultimi chilometri della 66 dove il traffico diventa preoccupante, svincoli parabolici e lunghe code fino a Los Angeles. Vedo l’oceano e l’affollatissima spiaggia di Santa Monica, la Route 66 is over. La visita dei rinomati quartieri e delle spiagge di Los Angeles e San Diego è sempre divertente ma ormai è ora di lasciare il Nord America e affrontare una delle dogane più trafficate e pericolose del mondo, quella di Tijuana. Sono ufficialmente in Messico e festeggio con i primi tacos de camarones. Mi accingo alla traversata della Bassa California; si dice che la zona nord della penisola sia piuttosto pericolosa a causa dei traffici di droga e di emigranti e sia consigliabile viaggiare in carovana. A El Rosario chiedo informazioni e le risposte sono tranquilizzanti. Come spesso accade il pericolo arriva dove meno te lo aspetti. Sto percorrendo un immenso deserto di cactus, caldo torrido, nessun essere umano, velocità sostenuta. Con la coda dell’occhio noto un avvoltoio che plana, si avvicina, sempre di più, ancora di più, poi in picchiata mi colpisce nel casco e sventra la visiera. Riesco ad abbassare il collo quei pochi centimetri che mi permettono di non cadere e di salvarmi la vita.

Dopo il grande spavento attraverso tutto il Messico e a Villahermosa sono ospite di Juan. Mi consiglia di chiudermi in casa e non uscire per nessun motivo: le sparatorie sono all’ordine del giorno. Visito Palenque, il sito maya immerso nella giungla e entro in Guatemala dalla frontiera di El Ceibo. Il Guatemala è verdissimo e le strade molto panoramiche, innumerevoli topas a rallentare la velocità e tanti ristorantini che offrono uova fritte, fagioli, tortillas e succhi tropicali. Visito la bella Flores e il sito archeologico di Tikal e raggiungo Puerto Barrios, città blindata e impenetrabile. E il pericolo continua anche in Honduras; San Pedro Sula e Tegucigalpa sono città tra le più violenta del mondo. Poi l’amato Nicaragua dove incontro Massimo, amico d’infanzia che da vent’anni si è trasferito a Las Penitas, località vicino a Leon. Mi consiglia la visita di Ometepe, l’isola all’interno del lago Nicaragua costituita da due vulcani collegati tra loro da un breve istmo. Al confine con il Costa Rica gli acquazzoni sono sempre più frequenti; è in arrivo una settimana di forti piogge che metteranno in ginocchio il paese e renderanno difficoltoso il mio transito. È ora di entrare a Panama e raggiungere Cartì in tempo utile per imbarcare la moto. La Panamericana infatti si infrange nella foresta del Darien ed è impossibile proseguire via terra. Ho prenotato quindi un passaggio su un veliero dei primi novecento, la Stahlratte. Al piccolo porto è già festa con centauri di varie nazionalità e 21 motociclette a dominanza BMW. Con questa banda di scalmanati trascorrerò tre giorni fantastici, mangiando pesce fresco e nuotando negli atolli delle San Blas. “Terra, terra”, ecco Cartagena, ecco il Sudamerica. La prima tappa è Medellin dove incontro Lorena e Jaime. Hanno un BMW 1.200 GS e il loro sogno è, come il mio, raggiungere Ushuaia in moto. A tal fine hanno prodotto 200 magliette con il logo “Dakar 40” e all’inizio di gennaio le venderanno a Lima alla partenza della Dakar, racimolando i dollari per il viaggio. Oggi è anche il giorno in cui l’Italia non si qualifica per i Mondiali di calcio. D’ora in poi la prima cosa che tutti mi diranno è : “Italiano? Italia, no Mundial”. Una grave onta in un continente che si nutre di calcio.

Eccomi alla prima frontiera sudamericana, quella con l’Ecuador. Le formalità sono semplici ma la fila è molto lunga, centinaia di giovani venezuelani hanno lasciato il loro paese e stanno cercando un futuro migliore nei paesi vicini. Quito è la capitale più bella delle americhe e me la godo con calma, poi arrivano le Ande che mi tengono compagnia fino a Cuenca, città coloniale meravigliosa. Entro in Perù, festeggio con il primo ceviche e decido di seguire la costa per tutti i suoi 2.400 chilometri. Arrivo a Trujillo il giorno del mio compleanno e sono ospite di Fernando. Gestisce un improbabile bar che mi ricorda la pubblicità nei peggior bar di Caracas e mi chiede di sostituirlo per tutto il pomeriggio. Compleanno alternativo servendo birre ghiacciate a nonni peruviani. Dopo le soste a Lima, all’oasi di Huacachina e a Arequipa raggiungo la frontiera con il Cile dove un nervoso doganiere controlla minuziosamente tutti i bagagli. Costeggio fino ad Arica dove imbocco la statale 11, la Ruta del desierto, tante belle curve fino ad arrivare ai 3.500 metri di Putre. L’altitudine incomincia a farsi sentire: il soroche mi provoca un cerchio alla testa e un forte stato di affaticamento. Dopo una notte difficile mi metto in marcia, ancora salita e il freddo è sempre più pungente. Sono nel remoto Parque Nacional Lauca dove alpaca e lama pascolano liberi, il cielo è di un azzurro innaturale e il vulcano Parinacota svetta solitario. Alla frontiera supero una lunghissima fila di camion e i doganieri boliviani si rivelano meno corrotti del previsto. Poi una delle pietre miliari di questo overland: il Salar di Uyuni. È il lago salato più grande del pianeta con i suoi 10.000 chilometri quadrati di lastre di sale dalla forma esagonale, luogo surreale dove il riflesso del sole è accecante. Quando entro in questo paradiso bianco urlo di felicità e accarezzo il serbatoio del mio BMW. Woooooowwwww!!! L’orientamento non è facile e bisogna fare attenzione alle enormi voragini chiamate ojos de salar. Ma in alcune direttrici si può correre a forte velocità; senza i riferimenti tradizionali è pazzesco guidare in questo luogo che considero tra i più belli al mondo. La Bolivia è un paese difficile: gli aspetti ambientali, economici e sociali non sono dei più favorevoli ma è un paese che rimane nel cuore. Rivisito Potosì e le quebradas di Tupiza , poi raggiungo Villazon, città di frontiera con l’Argentina, dove un cartello mi ricorda che a Ushuaia mancano “solo” 5.121 chilometri. Sono nella provincia di Jujuy e vado alla scoperta di Iruya, Humahuaca, Tilcara e Purmamarca, quattro villaggi incastonati tra le aride rocce multicolori delle Ande, imperdibili.

Con grande emozione mi immetto nella famosa Ruta 40 che attraversa longitudinalmente tutto il paese. A sud di Malargue inizia uno sterrato impegnativo e un fortissimo vento laterale mi impedisce di scegliere le traiettorie migliori. È incredibile la forza del vento in Patagonia. Poi la ghiaia lascia spazio alla sabbia; devo tenere una forte velocità ma non riesco a vedere che a pochi metri davanti a me. E infine cado. Sono illeso ma non riesco a sollevare la moto. Sono in mezzo ad una landa deserta, non mi resta che aspettare l’arrivo di un giovane camionista che mi aiuta a ripartire. Cadrò altre due volte e impiegherò oltre 4 ore per percorrere pochi chilometri. Torna l’asfalto ma il vento è implacabile, la moto piegata a contrastare le raffiche. Dopo Bariloche proseguo per la Ruta, giorni difficili a causa del meteo, dei lunghi sterrati e delle difficoltà nell’approvvigionamento di benzina. Attraverso località fuori dal mondo fino ad arrivare a El Calafate sul Lago Argentino e al vicino Perito Moreno. È il re dei ghiacciai, con il suo fronte azzurro alto oltre 60 metri e largo 5 chilometri, migliaia di crepacci e pinnacoli come un bianco mare tempestoso improvvisamente cristallizatosi. Una forza della natura che mi emoziona al pari del Salar de Uyuni.

Il continente sudamericano si restringe sempre di più ed è sempre più facile incrociare stravaganti viaggiatori. Incontrerò tedeschi in tuk-tuk, hippy in Volkswagen California, camper e furgoni modificati, camion 4×4 che sembrano astronavi, ciclisti, autostoppisti. Varie vicissitudini e tanti chilometri fino al 30 dicembre quando mancano solo 210 chilometri a Ushuaia. E’ l’ultimo giorno e i chilometri sembrano non passare mai, ancora freddo, pioggia e forte vento. Inizia la salita al Passo Garibaldi, ho le mani congelate e fatico a muovere le dita. Una caduta o un incidente comprometterebbe tutto il viaggio, non arrivare a destinazione è come non essere mai partito. Un “Tieni duro Riki” rimbomba nel casco. Una pericolosa discesa e all’improvviso il cartello agoniato, “USHUAIA”. Bacio l’asfalto e la moto, salto e urlo come un pazzo. Missione compiuta!!!

Da Ushuaia la moto non può partire per l’Europa, in qualche modo bisogna portarla a Buenos Aires. Sono in buone condizioni fisiche e non ho fretta; quindi decido di percorrere altri tremila chilometri sulla Ruta 3. Arrivo a Buenos Aires dove i ragazzi della Dakar Motors mi organizzano il rientro della moto in aereo. Nell’hangar dell’aeroporto incontro un ragazzo colombiano che deve spedire la moto a Bogotà. Ci scambiamo gli aneddoti del viaggio e mi racconta di quella coppia di Medellin che vicino al Salar de Uyuni ha avuto un grave incidente causato dalla rottura dei raggi. Mi si gela il sangue, sono Lorena e Jaime. Il loro sogno si è infranto sul più bello.


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